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Pedofilia (con caso clinico)

Origine e Significato del Termine

Il termine "pedofilia" ha un'origine etimologica che può sembrare inizialmente inoffensiva o addirittura positiva, in quanto composto dalle parole greche "pais" (che significa "bambino") e "filia" (che significa "amore" o "affetto"). In effetti, la traduzione letterale di "pedofilia" è "amore per i bambini".

Tuttavia, il contesto in cui questo termine viene utilizzato, soprattutto in ambito psichiatrico e giuridico, è ben diverso e molto più problematico, in quanto la pedofilia si riferisce a un disturbo psichiatrico caratterizzato da un’attrazione sessuale persistente e intensa verso i bambini prepuberi.


Pedofilia: di cosa si tratta, con la Psicologa Camilla Persico
Pedofilia: di cosa si tratta, con la Psicologa Camilla Persico

Manifestazioni e tipologie

La pedofilia è un disturbo psicopatologico che si manifesta in una vasta gamma di comportamenti, che spaziano dalle fantasie sessuali a veri e propri atti di abuso. La sua natura e le sue manifestazioni sono complesse e variegate, ma spesso includono forme di attrazione sessuale persistente e inappropriata verso i bambini.

Tra i comportamenti associati alla pedofilia, alcuni individui si limitano a osservare i minori con intenti erotici, mentre altri si spingono a comportamenti più espliciti e inaccettabili, come carezze o toccamenti sessuali, atti di autoerotismo in presenza del bambino o addirittura il coinvolgimento diretto del minore in attività sessuali, che possono includere forme di penetrazione anale, vaginale o orale.


Quando si parla di pedofilia, è importante sottolineare che il termine dovrebbe essere utilizzato esclusivamente per descrivere un’attrazione sessuale persistente senza la componente di violenza fisica o coercizione. In casi in cui il comportamento comprende violenza o abuso sessuale vero e proprio, si parla invece di parafilie multiple o di una condizione comorbida, come nel caso del disturbo da sadismo sessuale con minori. In questi casi, l’eccitazione sessuale non deriva dalla semplice attrazione per il bambino, ma dall’elemento sadico, che comporta infliggere dolore e sofferenza al minore.


Una delle distinzioni fondamentali nella pedofilia è quella tra pedofilia primaria e pedofilia secondaria. La pedofilia primaria, definita anche "essenziale", è quella che si sviluppa indipendentemente da altri disturbi psicopatologici e comporta un’attrazione sessuale persistente e predominante verso i bambini. La pedofilia secondaria, invece, è quella che emerge come espressione di altre problematiche psicologiche, come disturbi neurologici, psicosi o dipendenze. In questi casi, l’attrazione sessuale verso i bambini non è una caratteristica autonoma, ma una conseguenza di altre condizioni patologiche.


Un aspetto particolarmente insidioso della pedofilia è la sua natura egosintonica. Questo termine, utilizzato in psichiatria, indica che il soggetto con pedofilia non percepisce il proprio comportamento come problematico, al contrario, egli prova piacere e gratificazione dai propri atti sessuali e tende a giustificarli.

Questo atteggiamento giustificatorio porta spesso il pedofilo a negare o minimizzare il danno arrecato alla vittima, sostenendo che il bambino sia un partecipante consenziente.

La negazione della sofferenza del minore, unita alla convinzione che il comportamento non sia sbagliato, rende il disturbo particolarmente difficile da trattare, in quanto il soggetto non riconosce la necessità di cambiamento o di intervento.


Apporto neuroscientifico

Una curiosità interessante riguarda il fatto che la pedofilia primaria, sebbene ritenuta una condizione rara, è stata oggetto di studio per comprendere le sue origini, che potrebbero essere legate a fattori neurologici o biologici. Alcuni studi suggeriscono che la pedofilia primaria potrebbe derivare da anomalie nel cervello, in particolare nelle aree che regolano l’impulsività e il controllo delle emozioni, ed a riguardo le neuroscienze stanno cercando di individuare legami tra la struttura cerebrale e i comportamenti sessuali devianti, ma la questione rimane complessa e dibattuta.


Alcuni studi suggeriscono che potrebbero esserci differenze nell'area cerebrale che regola il controllo degli impulsi e la modulazione delle emozioni, come la corteccia prefrontale, in individui con disturbi sessuali devianti. Queste aree sono coinvolte nell'autocontrollo, nell'inibizione dei comportamenti impulsivi e nella comprensione delle conseguenze delle proprie azioni. Si è ipotizzato che disfunzioni o alterazioni in queste aree possano contribuire alla difficoltà di controllo di impulsi sessuali inappropriati.


Inoltre, alcune ricerche hanno suggerito che ci potrebbero essere anomalie in altre regioni cerebrali, come l'amigdala, che è coinvolta nelle risposte emotive e nelle percezioni di minaccia, e nell'ippocampo, che gioca un ruolo fondamentale nella memoria e nell'apprendimento. L'ipotesi è che anomalie in queste aree possano influenzare la percezione e l'elaborazione di stimoli sessuali, portando a un'inclinazione verso fantasie o comportamenti sessuali devianti.


Tipologie e il mito dello stereotipo

Quando si parla di pedofilia, è importante comprendere che questa non è una condizione monolitica, ma si manifesta in vari modi. La classificazione dei pedofili in base ai loro comportamenti e alle motivazioni può aiutarci a comprendere meglio le dinamiche psicologiche e sociali alla base di tali disturbi. In generale, i professionisti del settore distinguono tra diverse tipologie di pedofili, che, pur condividendo l'attrazione per i bambini, differiscono nel modo in cui questa si esprime.


Una delle categorie più discusse è quella del pedofilo sadico. Questa tipologia di individuo non si limita a provare un'attrazione sessuale verso i minori, ma trova piacere nella sofferenza che può infliggere alla vittima. La violenza fisica, la coercizione e l'umiliazione psicologica sono componenti fondamentali della sua condotta, che non è solo un atto sessuale, ma una vera e propria forma di dominio e controllo. L'individuo sadico si nutre dell'angoscia della vittima, spesso cercando di infliggere dolore sia fisico che emotivo, sfruttando la sua posizione di potere. La sofferenza del bambino diventa parte integrante della sua eccitazione, e l'atto abusante può essere ripetuto come mezzo di gratificazione continua.


Dall'altra parte troviamo il pedofilo ludico, che adotta un approccio meno visibile ma altrettanto pericoloso. Il pedofilo ludico si avvicina al bambino sotto le sembianze di un amico, spesso tramite il gioco. La sua strategia consiste nel guadagnarsi la fiducia del minore e dei genitori, rendendo più difficile il riconoscimento del suo comportamento deviato. Il gioco diventa il veicolo per instaurare una relazione apparentemente innocente, ma che nasconde l’intenzione di manipolare il bambino. In questo contesto, il pedofilo ludico agisce più come un "amico" che cerca il consenso della vittima, e la pressione psicologica e il silenzio richiesto dalla vittima diventano strumenti per garantire che gli abusi possano continuare.


In entrambi i casi, il comportamento del pedofilo non si limita al semplice desiderio sessuale, ma coinvolge un aspetto di controllo, manipolazione e, nel caso del pedofilo sadico, anche un forte bisogno di esercitare violenza. Le modalità di approccio e di relazione con la vittima variano, ma entrambe le tipologie sono segnate da una distorsione grave dei comportamenti sessuali e relazionali.


Un altro aspetto importante da considerare è il mito del pedofilo stereotipato, che spesso è radicato nell'immaginario collettivo. Molti, infatti, tendono a rappresentare il pedofilo come un individuo anziano, disordinato, nascosto nei parchi o in luoghi appartati, pronto a rapire i bambini. Questa rappresentazione cinematografica e mediatica, sebbene non del tutto infondata in alcuni casi, non corrisponde alla realtà della maggior parte dei pedofili. Questi individui possono essere adulti insospettabili, tra cui vicini di casa, insegnanti, membri della famiglia o persino figure di autorità come religiosi o babysitter. Questo fatto rende ancora più difficile identificare e prevenire gli abusi, in quanto la persona che potrebbe essere un potenziale aggressore è spesso vista come una figura di fiducia nella comunità.


Diagnosi del Disturbo pedofilico secondo il DSM-5

Il disturbo pedofilico è classificato tra i disturbi parafilici nel DSM-5 e si caratterizza da una serie di comportamenti e manifestazioni psicologiche legate a fantasie o impulsi sessuali intensi e ricorrenti rivolti verso bambini prepuberi. Una delle caratteristiche principali per diagnosticare questo disturbo è che queste fantasie, impulsi o comportamenti devono perdurare per un periodo di almeno sei mesi, a meno che non vengano messi in atto con danni reali. Se l'individuo vive in un disagio significativo a causa di tali pensieri, o agisce concretamente su di essi, si parla effettivamente di disturbo pedofilico.


Un aspetto importante da sottolineare è che la diagnosi non dipende solo dall'ammissione di attrazione per bambini, ma deve essere supportata da evidenze concrete. Ad esempio, una persona che neghi qualsiasi attrazione verso minori, nonostante vi siano prove oggettive (come la raccolta di fantasie sessuali su bambini o il possesso di materiale pedopornografico), può comunque essere diagnosticata con il disturbo, se tale attrazione causa disagio significativo o viene messa in atto.


La presenza di fantasie sessuali, da sola, non è sufficiente a formulare la diagnosi di disturbo pedofilico. Infatti, se una persona nutre desideri pedofili ma non li ha mai tradotti in comportamenti concreti e non prova sofferenza o disagio a causa di questi impulsi, non può essere considerato un disturbo. Questo evidenzia l'importanza di valutare con attenzione anche la motivazione sottostante, come il grado di controllo degli impulsi e la consapevolezza del danno che questi comportamenti possono causare. È interessante notare che molti individui condannati per crimini sessuali contro minori spesso presentano disturbi psichiatrici comorbidi, come disturbi antisociali della personalità o abuso di sostanze. In particolare, la presenza di una sindrome psico-organica o di un ritardo mentale può influire negativamente sulla capacità di esercitare autocontrollo, riducendo il giudizio critico e aumentando il rischio di comportamenti devianti.

Un'altra curiosità legata a questo disturbo riguarda la definizione dei criteri di età per la diagnosi. Secondo il DSM-5, una persona deve avere almeno 16 anni e presentare una differenza d'età di almeno 5 anni rispetto alla vittima per soddisfare i criteri diagnostici. Questo sottolinea come l'adolescenza e l'età adulta siano considerate come periodi in cui un individuo dovrebbe sviluppare attrazioni sessuali verso coetanei, mentre l'attrazione per i bambini viene vista come una deviazione da tale sviluppo naturale.


Infine, nonostante l'argomento possa sembrare altamente stigmatizzante, è importante sottolineare che la diagnosi di disturbo pedofilico non implica automaticamente che una persona sia colpevole di crimini sessuali contro minori. L'elemento distintivo è la messa in atto dei comportamenti. Il disturbo viene identificato solo quando gli impulsi vengono concretamente espressi in azioni che mettono a rischio l'integrità fisica e psicologica del minore, tuttavia, la difficoltà di individuare questi soggetti prima che agiscano rende la prevenzione e l'intervento particolarmente complessi.


Aspetti comportamentali e strategie di manipolazione

Il comportamento pedofilico è un fenomeno complesso e spesso difficile da riconoscere immediatamente, proprio per la natura insidiosa dei meccanismi psicologici messi in atto dai soggetti che lo manifestano. Secondo uno studio di Abel et al. (1987), che ha coinvolto 561 individui con parafilie, le attività pedofiliche non includono necessariamente atti di violenza fisica. Ciò implica che, contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, l'atto di abuso non è sempre preceduto da un'aggressione o da una forma esplicita di coercizione fisica. In effetti, la violenza non è una condizione necessaria per l'inizio dell'abuso. Piuttosto, i pedofili si avvalgono di strategie manipolative molto più sottili e pericolose.


La ricerca condotta da Finkelhor e Lewis, che ha analizzato le dinamiche di abuso nei casi pedofilici, conferma che i pedofili non sono generalmente ostili o violenti nei confronti dei bambini. Al contrario, spesso ricorrono a tecniche di manipolazione e inganno, cercando di guadagnarsi la fiducia del minore e di creare un ambiente in cui il bambino si senta al sicuro e protetto. Questo tipo di comportamento si basa sull'instaurazione di una relazione apparentemente affettuosa, che ha lo scopo di eliminare ogni resistenza e di ridurre la possibilità che l'abuso venga denunciato.

Questi individui, infatti, sanno come fare leva su vari aspetti psicologici del bambino, come la solitudine, la confusione e il desiderio di attenzione e affetto. Adottano strategie di seduzione e comprensione, che possono sembrare innocenti o affettuose agli occhi di un adulto o di un osservatore esterno, ma che sono in realtà finalizzate ad abbattere le difese psicologiche del bambino. La manipolazione psicologica è quindi una delle tattiche più pericolose adottate dai pedofili, poiché la vittima può non rendersi conto immediatamente di essere stata manipolata, soprattutto se l'abuso si sviluppa lentamente e sotto il velo di una "relazione speciale".

Un aspetto fondamentale in questi casi è la minimizzazione del danno percepito, tanto da parte del pedofilo quanto della vittima. Il pedofilo tende a giustificare le sue azioni, spesso cercando di presentare l'abuso come un atto affettuoso o naturale, mentre il bambino, soprattutto se molto giovane, potrebbe non avere la capacità di comprendere pienamente la gravità della situazione. Ciò che rende ancora più insidiosa questa manipolazione psicologica è che, spesso, il pedofilo agisce in modo da isolare ulteriormente il bambino, rendendo difficile per lui o per altri esterni identificare la situazione come una forma di abuso.

Non raramente, la manipolazione psicologica si accompagna a pressioni emotive o psicologiche più sottili, come il far sentire il bambino colpevole per non "compiacere" l'adulto, o il creare un clima di segretezza in cui la vittima è persuasa che ciò che accade tra loro deve rimanere nascosto. Questi meccanismi di controllo mentale sono molto pericolosi perché spesso non sono immediatamente visibili all'esterno e richiedono una sensibilità particolare da parte di chi entra in contatto con il bambino per riconoscerli.


Curiosità psicologiche legate a questo comportamento manipolativo possono riguardare la capacità di dissimulazione di questi individui. Molti pedofili, infatti, sono in grado di mascherare la loro vera natura e di integrarsi in modo perfetto nel contesto sociale, come vicini di casa, insegnanti, allenatori o anche membri di comunità religiose. Questo fenomeno è noto come "grooming": un processo che avviene nel tempo e che permette al pedofilo di costruire una rete di fiducia, tanto con il bambino quanto con gli adulti intorno a lui, prima di agire.


Il "grooming" è talmente efficace che, spesso, nessuno sospetta di nulla fino a quando l'abuso non diventa evidente.


La manipolazione psicologica è anche legata al concetto di potere che il pedofilo cerca di esercitare sulla vittima il quale non si esprime sempre attraverso la violenza fisica, ma piuttosto tramite il controllo emotivo e psicologico, facendo sentire la vittima intrappolata in un legame di dipendenza che la porta a non reagire né a cercare aiuto. I soggetti pedofili tendono a sfruttare la vulnerabilità psicologica dei bambini, giocando con le loro emozioni, i loro timori e il loro bisogno di affetto. Questo aspetto della manipolazione psicologica è stato oggetto di numerosi studi, che hanno messo in evidenza come il pedofilo si approfitti della relazione di potere per mantenere il controllo e impedire che la vittima si ribelli o si confidi.


Pedofilia femminile: un fenomeno sottovalutato

Sebbene la maggior parte delle persone con disturbo pedofilico sia di sesso maschile, esistono casi in cui anche le donne perpetrano abusi sessuali su minori, tuttavia, la loro presenza nei dati statistici risulta meno evidente a causa di stereotipi culturali radicati. Infatti, nella percezione comune, le donne vengono raramente considerate capaci di commettere atti sessuali nei confronti dei bambini, il cui pregiudizio porta a una sottovalutazione di determinati comportamenti abusanti, che spesso non vengono riconosciuti come tali.

A differenza degli uomini, le donne con tendenze pedofiliche difficilmente ammettono di provare attrazione sessuale per i bambini e negano sistematicamente la natura del loro comportamento, così come tendono a giustificare le proprie azioni attribuendole a un rapporto affettivo o educativo con la vittima, soprattutto quando il minore è di sesso maschile. Le donne pedofile spesso operano in contesti in cui rivestono ruoli di accudimento, come insegnanti, baby-sitter o assistenti all'infanzia, il che facilita il loro accesso ai bambini e la costruzione di relazioni di fiducia.


Le Teorie sull’eziologia della pedofilia

Numerosi studi hanno cercato di comprendere le cause del disturbo pedofilico, sviluppando diverse teorie per spiegare l’origine di questa parafilia. Di seguito vengono analizzate le principali ipotesi.


1. Concezione psicoanalitica classica

Secondo la teoria psicoanalitica classica, la pedofilia è il risultato di fissazioni e regressioni verso forme immature di sessualità. Freud (1905) descrive la pedofilia come una perversione derivante dall’angoscia della castrazione, un timore inconscio che impedisce al soggetto di sviluppare una sessualità adulta, costringendolo a dirigere il proprio interesse verso individui percepiti come più vulnerabili e controllabili, come i bambini.

Alcune teorie psicoanalitiche più recenti suggeriscono che, oltre alla paura del rapporto amoroso adulto, vi sia una componente narcisistica: il pedofilo ricercherebbe nel bambino un riflesso di sé stesso nell’infanzia, tentando inconsciamente di colmare un proprio vuoto emotivo. Tuttavia, questa teoria presenta delle lacune, poiché non spiega perché la pedofilia venga scelta come meccanismo difensivo invece di altre forme di regressione o deviazione sessuale.


2. Teoria dell’abusato-abusatore

Un’altra ipotesi è quella secondo cui molti pedofili abbiano subito a loro volta abusi sessuali durante l’infanzia. Secondo Garland e Dougher (1990), oltre il 50% delle persone che commettono atti di abuso ha vissuto esperienze traumatiche simili, spiegando la pedofilia come una ripetizione dell’esperienza subita, in cui la vittima diventa carnefice in un ciclo di trasmissione dell’abuso.

Tuttavia, è importante considerare che non tutti coloro che hanno subito abusi diventano pedofili in età adulta dato che la manifestazione del disturbo dipende da molteplici fattori, tra cui l’età in cui è avvenuto l’abuso, la relazione con l’abusante, la durata e l’intensità del trauma.

Questa teoria rientra nelle cosiddette teorie “giustificative”, poiché pone il pedofilo in una duplice condizione di vittima e carnefice, creando difficoltà normative e giuridiche nell’attribuzione della responsabilità penale.


3. Teoria neuropsicologica

Alcuni studi suggeriscono che la pedofilia possa derivare da disfunzioni cerebrali. Secondo Strano (2001), la perversione sessuale potrebbe essere il risultato di alterazioni nelle funzioni dell’emisfero cerebrale dominante. Si ipotizza che una patologia in quest’area possa favorire la formazione di idee sessuali devianti e influenzare negativamente la comunicazione tra gli emisferi cerebrali.

Le ricerche neuroscientifiche condotte attraverso tecniche di neuroimaging, come la risonanza magnetica funzionale (fMRI) e la tomografia a emissione di positroni (PET), hanno rivelato anomalie nelle regioni frontali e centrali del cervello nei soggetti con disturbo pedofilico (Schiffer, 2008), in particolare, è stato osservato un ridotto volume di materia grigia nel corpo striato, una regione coinvolta nella regolazione degli impulsi e delle risposte comportamentali. Anche il nucleo accumbens, la corteccia orbitofrontale e il cervelletto risultano compromessi, suggerendo un’associazione tra pedofilia e meccanismi neurologici legati alle dipendenze comportamentali.


4. Teoria cognitiva: la pedofilia come dipendenza

Un’interpretazione alternativa vede la pedofilia come una forma di dipendenza, simile a quella per l’alcol, le droghe o il gioco d’azzardo. Secondo questa prospettiva, nei soggetti pedofilici si attiverebbero gli stessi circuiti neuronali coinvolti nei disturbi della dipendenza, rendendo il comportamento compulsivo e difficile da controllare.

Un meccanismo cognitivo frequentemente utilizzato dai pedofili è il “disimpegno morale”, ovvero un processo psicologico che permette di giustificare le proprie azioni e di minimizzare il senso di colpa e di vergogna, per cui attraverso razionalizzazioni e autoinganni, il pedofilo può convincersi che il proprio comportamento non sia dannoso o che sia accettabile in determinati contesti, riducendo così l’inibizione e il rimorso.


Approcci terapeutici

Il disturbo pedofilico, sebbene non curabile in senso stretto (così come abbia visto per tutte le parafilie del resto...), può essere gestito attraverso strategie volte a prevenire l’espressione comportamentale dell’impulso sessuale deviante, dove l’obiettivo principale del trattamento terapeutico è il controllo dell’attrazione sessuale verso i minori prepuberi, favorendo lo sviluppo di schemi cognitivi e comportamentali più adattivi.

In particolare, il trattamento si avvale di un approccio multidisciplinare che integra tecniche cognitive e comportamentali:


Le tecniche comportamentali nel trattamento dei disturbi parafilici, come la pedofilia, mirano a modificare i comportamenti devianti attraverso l’utilizzo del condizionamento. Il principio di base è quello di sostituire i comportamenti problematici con quelli più socialmente adattivi, cioè accettabili e funzionali all’interno delle norme sociali. Una delle strategie principali utilizzate è il condizionamento operante, che si basa sull'uso di rinforzi positivi e negativi per modificare il comportamento, ad esempio, rinforzo positivo viene applicato premiano comportamenti socialmente desiderabili, come l’espressione di affetto appropriato o l’interazione sociale sana, mentre si tenta di estinguere i comportamenti sessuali devianti. Un'altra tecnica importante è l'evitamento: il soggetto viene allenato a riconoscere e a evitare gli stimoli scatenanti, ovvero quegli eventi o situazioni che potrebbero attivare i suoi impulsi sessuali devianti, ad esempio, si possono utilizzare strategie cognitive e comportamentali per evitare contatti con bambini o situazioni che potrebbero innescare pensieri o desideri inappropriati. L'evitamento in questo contesto, però, deve essere accompagnato da altre tecniche di coping, in modo da non limitarsi esclusivamente a "fuggire" dai fattori di rischio, ma anche a costruire nuove modalità di interazione sana con l'ambiente.


L'intervento cognitivo si concentra invece sulla modifica delle distorsioni cognitive, cioè quei pensieri e convinzioni irrazionali che giustificano e alimentano i comportamenti devianti. I soggetti con disturbi parafilici spesso manifestano distorsioni come:

  • Minimizzazione dell’atto: la persona può ridurre l’importanza o la gravità dell’abuso, convinta che il suo comportamento non sia così dannoso per la vittima o che la vittima abbia in qualche modo "desiderato" l’interazione.

  • Diniego della responsabilità: i soggetti possono rifiutare di assumersi la responsabilità per le proprie azioni, accusando fattori esterni (come la vittima stessa, le circostanze o addirittura il "destino") invece di riconoscere il proprio comportamento scorretto.

  • Sessualizzazione della vittima: in alcuni casi, i pedofili giustificano il loro comportamento vedendo il bambino non come una vittima innocente, ma come un "oggetto sessuale" che contribuisce o induce l’abuso.

  • Assenza di senso di colpa: questi individui possono non provare rimorso per le loro azioni, o addirittura convincersi che non c'è nulla di sbagliato nel comportamento, rendendo più difficile il processo di cambiamento.

Il trattamento cognitivo aiuta la persona a prendere consapevolezza di queste distorsioni, a riconoscere la gravità del proprio comportamento e a sviluppare pensieri più adattivi. Si cerca di correggere queste convinzioni distorte in modo che il soggetto possa vederle in una luce più realistica, riconoscendo i danni che le sue azioni provocano alle vittime e alla società in generale.


Infine, il potenziamento delle competenze socio-emotive è un aspetto fondamentale del trattamento il cui obiettivo è quello di migliorare la capacità di interagire in modo sano e appropriato con gli altri, concentrandosi su diversi aspetti chiave:

  • Empatia: sviluppare la capacità di comprendere e sentire le emozioni e il punto di vista degli altri, in particolare delle vittime. L’empatia è essenziale per ridurre la probabilità di atti dannosi, poiché aiuta a riconoscere la sofferenza dell'altro.

  • Autostima: migliorare l'autoconsapevolezza e il valore di sé, in modo che la persona non senta il bisogno di ricorrere a comportamenti devianti per compensare insicurezze o difficoltà emotive.

  • Gestione degli stati emotivi negativi: rafforzare la capacità di affrontare e regolare emozioni come frustrazione, rabbia, solitudine, senza ricorrere a comportamenti disfunzionali.

  • Competenze relazionali non sessualmente disturbanti: insegnare abilità per interagire con gli altri in modo sano, costruire relazioni basate su rispetto reciproco, affetto non sessuale e comprensione.


L’approccio cognitivo-comportamentale, combinato con il potenziamento delle competenze socio-emotive, riduce il rischio di recidiva, infatti le persone trattate in questo modo diventano più consapevoli delle proprie emozioni e dei loro effetti sugli altri, aumentando così la probabilità di stabilire relazioni più sane e di evitare il ripetersi degli abusi. Questo tipo di intervento è quindi cruciale non solo per la gestione del disturbo in sé, ma anche per ridurre i danni sociali e psicologici che comportano i comportamenti devianti, sia per le vittime che per gli stessi autori degli abusi.


Ruolo della farmacoterapia

Nei casi più gravi, o laddove il trattamento psicologico da solo non sia sufficiente, si ricorre a farmaci per ridurre l’impulso sessuale, in particolare per soggetti ad alto rischio di recidiva:

  • Medrossiprogesterone acetato (MPA): utilizzato principalmente negli Stati Uniti, agisce bloccando la produzione ipofisaria di ormone luteinizzante (LH) e ormone follicolo-stimolante (FSH), con conseguente riduzione della produzione di testosterone e abbassamento della libido.

  • Agonisti del GnRH (es. leuprolide): riducono la produzione ipofisaria di LH e FSH, portando a una soppressione della produzione di testosterone. A differenza del MPA, questi farmaci richiedono iniezioni meno frequenti (da una volta al mese fino a ogni sei mesi), ma il loro costo è significativamente più alto.

  • Ciproterone acetato: impiegato principalmente in Europa, blocca i recettori del testosterone e riduce la libido.


Il trattamento farmacologico è a lungo termine, poiché la sospensione della terapia porta spesso alla ricomparsa delle fantasie e degli impulsi pedofilici entro poche settimane o mesi. Durante la somministrazione di farmaci, è necessario un monitoraggio regolare dei livelli di testosterone, che devono essere mantenuti entro il range dei livelli femminili normali (<62 ng/dL) nei pazienti di sesso maschile, inoltre, sono richiesti controlli periodici della funzionalità epatica, della pressione sanguigna, della densità minerale ossea e dell’emocromo per prevenire eventuali effetti collaterali.


L’efficacia del trattamento varia in base al contesto in cui viene intrapreso. Studi dimostrano che i trattamenti volontari tendono a essere più efficaci rispetto a quelli imposti dal sistema giudiziario, tuttavia, alcuni criminali sessuali sottoposti a terapie obbligatorie hanno riportato miglioramenti, specialmente quando la psicoterapia è associata a trattamenti farmacologici.


Un trattamento integrato, che comprenda supporto psicoterapeutico, farmacologico e interventi di riabilitazione sociale, è essenziale per ridurre il rischio di recidiva e migliorare le possibilità di reintegrazione nella società.



Caso Clinico

M. è un uomo di 37 anni che decide di iniziare un percorso con me dopo un lungo periodo di sofferenza interiore. Entra nello studio con il volto teso, lo sguardo sfuggente e un’espressione di vergogna profonda, e dopo qualche esitazione, trova il coraggio di parlare:

"Non so cosa mi stia succedendo. Ho pensieri che non dovrei avere. Mi sento attratto da ragazzine adolescenti, e questo mi fa paura. Non ho mai fatto nulla di sbagliato, ma non riesco a smettere di pensarci. Sono sbagliato?"

Lo invito con calma a raccontare la sua storia per comprendere l’origine di questo disagio.

M. racconta di aver avuto un'infanzia solitaria, cresciuto in una famiglia emotivamente distante. Durante l’adolescenza ha vissuto le sue prime esperienze sessuali con grande difficoltà. A 16 anni ha avuto un’unica relazione con una coetanea, ma è stata un’esperienza traumatica: la ragazza lo ha lasciato poco dopo, facendolo sentire inadeguato e indesiderato, prendendolo in giro con le sue amiche. Da quel momento, M. ha sviluppato una profonda insicurezza nei confronti delle donne e ha iniziato a evitare le relazioni, specialmente in età adulta, avendo difficoltà a relazionarsi.

Nel tempo, il suo interesse affettivo e sessuale non si è evoluto insieme alla sua età. Bloccato nella paura del rifiuto e nella mancanza di esperienze adulte, ha continuato a fantasticare su ragazze adolescenti, l’età in cui aveva vissuto le sue uniche emozioni sentimentali e sessuali.

"Mi rendo conto che non è normale, ma non riesco a provare attrazione per le donne della mia età. Le vedo distanti, fuori dalla mia portata. Con le ragazze più giovani, almeno a livello di pensiero, mi sento più sicuro, meno giudicato."

M. sottolinea di non aver mai avuto impulsi a concretizzare queste fantasie e di essere profondamente turbato da esse.

Dopo un’analisi clinica, emerge che M. non presenta una diagnosi di disturbo pedofilico, dato che i criteri diagnostici del DSM-5 richiedono che l’attrazione sessuale sia diretta principalmente verso bambini prepuberi, e questo non è il suo caso.

Egli mostra invece una fissazione psicologica legata all’età adolescenziale, dovuta alla mancanza di esperienze relazionali adulte e al trauma della sua prima esperienza sentimentale. Il suo desiderio non è rivolto all’infanzia, ma a un’epoca della sua vita in cui si è sentito per l’ultima volta emotivamente coinvolto: per specificare meglio si tratta di una forma di arresto dello sviluppo psicosessuale, in cui l’individuo rimane ancorato a uno schema affettivo e sessuale giovanile per paura di affrontare l’età adulta.

La terapia di M. si sta focalizzando su:

  1. Esplorare il trauma relazionale vissuto in adolescenza e le sue conseguenze sull’autostima e sulla fiducia nelle relazioni adulte.

  2. Modificare le credenze disfunzionali, aiutandolo a superare la paura del giudizio e l’evitamento delle donne adulte.

  3. Favorire esperienze relazionali adulte, lavorando sulla costruzione di relazioni emotive e sessuali più mature.

  4. Gestire il senso di colpa e l’ansia, per aiutarlo a comprendere che il suo problema non lo rende un criminale, ma una persona con una difficoltà psicologica trattabile.

  5. Sviluppare una sessualità più sana e coerente con la sua età, attraverso un lavoro di ristrutturazione cognitiva e di esposizione graduale alle relazioni adulte.


M. non è un pedofilo, ma un uomo bloccato in una fase adolescenziale della sua affettività e sessualità, e con un percorso terapeutico adeguato, potrà superare questa fissazione e costruire relazioni più sane e adulte.



Questa storia serve a illustrare come alcuni disturbi dello sviluppo psicosessuale possano essere confusi con la pedofilia e come una valutazione clinica approfondita sia essenziale per comprendere la vera natura del problema. In effetti, alcuni disturbi psicologici, come quello che presenta M. nella storia, possono sembrare inizialmente simili alla pedofilia, ma richiedono una diagnosi accurata per distinguere tra una fissazione psicologica su un periodo di vita passata e un vero e proprio disturbo sessuale che coinvolge un interesse per bambini prepuberi.

Nel caso di M., la sua attrazione per ragazze adolescenti non è basata su un desiderio verso i minorenni in senso stretto, ma piuttosto su un blocco emotivo e psicosessuale legato alla sua esperienza adolescenziale, dunque in terapia, l'obiettivo non è solo quello di comprendere le radici di questi pensieri, ma anche intervenire sul blocco psicologico stesso che gli impedisce di sviluppare relazioni affettive mature e soddisfacenti.

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© Coryright 2024 Camilla Persico | Psicologa Clinica, Neuropsicologa, Sessuologa, Pedagogista a Carrara | P.IVA: 01440390456 

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