C'era una volta una ragazzina il cui spirito delicato era stato contorto e manipolato da una personalità psicopatica.
Poche tracce rimanevano di un amor proprio ormai sbiadito, che ogni tanto, faticosamente, riusciva ad emergere con fierezza, abbastanza da allontanarla da lui per brevi istanti.
Ma quel momento di gloria durava sempre troppo poco, incapace di resistere alle insistenze mirate e alla pressione sulla sua psiche fragile.
In quei momenti in cui la sua forza interiore tentava di risorgere, la ragazzina si allontanava, cercando di trovare un po' di respiro lontano da quell'uomo che la imprigionava con la sua manipolazione subdola.
Ma lui sapeva esattamente quando riapparire, quando far leva sui pochi sprazzi di felicità, o almeno di apparente serenità, che ancora lei riusciva a trovare.
Così, con astuzia diabolica, lui impose la necessità di consultare uno psicologo, sfruttando quei momenti di "felicità" rimasti come arma per sostenere che lui era perfetto, e lei, ovviamente, la causa di ogni problema.
Lisa, confusa e in preda alla disperazione, accettò. Forse, pensò, la dottoressa avrebbe potuto aiutarla a fare chiarezza in quel turbinio di confusione che era diventata la sua vita.
Nella prima seduta, la dottoressa aprì il DSM-5 e cominciò a elencare una serie di criteri, sottolineando come molti di essi sembrassero adattarsi perfettamente alla situazione di Lisa. Sentimenti di vuoto, pensieri di morte, comportamenti suicidari ricorrenti, autolesionismo, impulsività in aree a rischio come abuso di sostanze o guida spericolata, una percezione di sé instabile, la paura ossessiva dell'abbandono, la difficoltà nel gestire la rabbia... tutto sembrava calzare.
Lisa pianse incessantemente durante quella seduta. Era come se si scontrasse per la prima volta con la realtà nuda e cruda di quanto stava vivendo.
Ma nonostante tutto quel "colloquio terapeutico", non riuscì a trovare conforto.
Sapere di soffrire di una condizione così complessa e debilitante, che non le offriva nessuna soluzione tangibile, nessuna via d'uscita.
Sconvolta, Lisa lasciò lo studio della dottoressa con l'anima ancora più pesante di prima. Se quello era ciò che significava essere "psicologa" (cosa che la presunta dottoressa, in realtà, non era), allora Lisa capì che non avrebbe mai voluto seguire quella strada.
Ovviamente, decise che non avrebbe mai più varcato quella porta.
Ma, con il tempo, le cose cambiarono per Lisa.
A distanza di tanto, oggi si rende conto di una cosa fondamentale: la dottoressa, in tutta la sua perizia clinica, non le aveva fatto la domanda più importante.
Non le aveva chiesto se, nonostante tutto, lei fosse felice.
E ora, riflettendo su quei giorni oscuri e su quell'esperienza dolorosa, Lisa sa che la vera guarigione è arrivata quando ha iniziato a porsi quella domanda a se stessa.
E la risposta, pian piano, ha cominciato a emergere da dentro di lei.
Sì, forse ancora c'è confusione, ancora ci sono ferite da lenire, ma Lisa sta imparando a costruire la sua felicità, a ritrovare se stessa al di là delle etichette e delle diagnosi.
Oggi, Lisa ha cambiato la sua vita.
Ha imparato che la vera forza non sta nel sopportare il peso delle proprie sofferenze, ma nel trovare il coraggio di chiedersi se è felice e nel fare i passi necessari per raggiungere quella felicità, anche se significa dover lottare contro i fantasmi del passato e le ombre delle proprie paure.
Considerazioni sull'approccio terapeutico
La dottoressa in questo racconto si presenta come un'esperta clinica, padrona di una vasta conoscenza psicologica, capace di identificare e elencare con precisione i criteri di una condizione come la personalità bipolare, tuttavia, emerge anche un vuoto nel suo approccio terapeutico, un'assenza cruciale che getta un'ombra sulla sua professionalità: la mancanza di umanità.
La dottoressa, con il suo elenco di sintomi e criteri, sembra aver mancato di cogliere l'essenza stessa di Lisa. Non le ha chiesto se fosse felice, non ha scavato nelle profondità della sua anima per comprendere veramente cosa stesse vivendo.
Invece, si è limitata a etichettare, a incasellare, a delineare confini attorno a una sofferenza che, per Lisa, era ben più complessa di una semplice diagnosi.
Il suo approccio potrebbe essere definito freddo, distaccato, privo di quella comprensione empatica che spesso è così essenziale nel campo della salute mentale.
Lisa, vulnerabile e in cerca di aiuto, si è trovata di fronte a una professionista che, pur nella sua competenza tecnica, sembrava ignorare l'aspetto più fondamentale: l'indagine dell'anima.
Una dottoressa più umana avrebbe forse posto domande diverse, avrebbe cercato di comprendere la storia emotiva di Lisa, le sue aspirazioni, i suoi desideri più profondi.
Avrebbe cercato di vedere oltre le rigide categorie diagnostiche, per abbracciare la complessità umana di una giovane donna in lotta con se stessa e con un manipolatore psicopatico.
In questo racconto, la dottoressa rappresenta un monito su quanto sia essenziale, nel campo della psicologia e della psicoterapia, non solo possedere la conoscenza tecnica, ma anche il cuore empatico che sa ascoltare, comprendere e accompagnare il paziente nel suo viaggio verso la guarigione.
Il vero successo terapeutico infatti, a parer mio, non risiede solo nell'accuratezza delle diagnosi o nella precisione delle terapie, ma nell'abilità di guardare veramente dentro l'anima di chi si ha di fronte, e di fare la domanda più importante di tutte: "Sei felice? Cosa ti rende felice?"
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